La fragilità del respiro. La storia di Francesco
Quando è diventato chiaro che il CoVid-19 non era “una semplice influenza” le nostre vite sono andate in pausa. Tutti noi abbiamo voluto sperare che si trattasse di una pausa passeggera e indolore. Dopo aver attraversato un paio di settimane di rallentamento, pensavamo, dopo aver finito di ritinteggiare le pareti o di guardare in streaming un paio di stagioni della nostra serie tv preferita (a seconda del livello di abilità nei lavoretti manuali e/o di pigrizia di ciascuno) ci saremmo rituffati nella solita vita di prima.
Una vita che prima ci sembrava tanto stressante e mediocre, ma che ora ci manca come un amore lontano: il lavoro, un pieno di benzina, un caffè con un amico, la possibilità di fare una passeggiata all’aperto senza il timore di essere segnalati alle autorità come pericolosi sovversivi.
Poi si è capito che non sarebbe stata cosa di poche settimane, e marzo 2020 avrebbe segnato l’inizio di una nuova fase della nostra esistenza, che ci avrebbe costretto a cambiare drasticamente da un giorno all’altro la nostra vita quotidiana. Forse sotto sotto lo avevamo sempre saputo.
Responsabile di questo scherzetto, ci dicevano i tg, era una bestiolina cinese che veniva rappresentata come una sfera grigia con le cornine rosse, e che gli scienziati chiamavano SARS-CoV-2. “Per tanti di noi è stato uno shock scoprire i propri polmoni esposti all’offensiva devastante di un esserino di dimensioni microbiche, tanto piccolo eppure capace di stravolgere le nostre giornate, e di mettere a repentaglio la nostra stessa vita”.
È una situazione che, purtroppo, noi malati di fibrosi cistica conoscevamo fin troppo bene. La sensazione di fragilità e precarietà che tanti hanno conosciuto per la prima volta nei giorni del Coronavirus è nostra da sempre. L’esserino dalle cornine rosse per me e per noi è l’ultimo arrivato in una lista di bestioline pericolose di cui io, come i miei compagni di lotta, avevo cominciato dall’infanzia a conoscere nomi e nomignoli: Aspergillo, Stafilococco Aureo (col suo fratello cattivo, che si fa chiamare MRSA), Pseudomonas Aeruginosa, Cepacia.
Un biologo direbbe che quelli sono batteri e funghi, e non virus come la bestiolina di Wuhan: sottigliezze. Sono esserini invisibili, e soprattutto sono moniti viventi che il respiro di noi umani è fragile, e può essere improvvisamente messo in crisi anche da una stretta di mano. “Per noi è fragile da sempre; per tutti, da qualche settimana a questa parte”.
Non me ne vogliate, dunque, se vi dico che per noi tanti elementi del mondo nuovo dopo il Corona non sono nulla di radicalmente nuovo. E non mi riferisco solo a mascherine e disinfettanti, che fanno da sempre parte della nostra vita: mi riferisco, ben più dolorosamente, al vedere il respiro di nostri amici, nostri conoscenti e nostri pari fiaccato e interrotto per sempre da un nemico invisibile. Non c’è giorno in cui i loro volti e i loro nomi non ci vengano in mente come quelli di valorosi soldati che ci hanno preceduto nell’ultima battaglia, a cui rendere omaggio ed onore.
Infine, noi, e soprattutto i più anzianotti tra noi, abbiamo sempre vissuto consapevoli di avere sulla testa la spada di Damocle di un’aspettativa di vita statisticamente fissata a dopodomani. Lo abbiamo compreso e interiorizzato, e abbiamo imparato a costruire la nostra vita intorno a questo dato di fatto.
Io ad esempio ho trentatré anni. Alla mia nascita, a mia madre fu detto: “c’è un 50% di possibilità che tuo figlio arrivi alla maggiore età”. Poi grazie al cielo le condizioni di cura sono migliorate, e sono state sviluppate nuove terapie. Arrivato attorno ai vent’anni mi si diceva: “per fortuna ora va molto meglio, pensa, l’età media dei pazienti si aggira intorno ai trentaquattro anni”. Io trentaquattro li faccio ad agosto.
Ecco perché, in una lotta come quella in cui tutti siamo scaraventati da quaranta giorni a questa parte, non vogliatemene ancora una volta, ma “sento di essere un po’ un veterano”: un veterano fragile, perché fiaccato da anni di colpi avversi della fortuna, ma anche un po’ più esperto della media; un veterano che finora era stato felicissimo di combattere solo coi suoi pochi compagni di lotta, perché voleva dire che gli “altri”, i “sani” potevano vivere una vita più leggera e spensierata, e che ora vede, suo malgrado, anche tutti i suoi amici sani scaraventati al fronte come lui. Li compatisce, ma si sente anche nelle condizioni di dare loro una parola di conforto, anche se non si sa quando finirà questa faccenda, come ne emergeremo, e che vita ci aspetta dopo. Perché se trentatré anni di lotta mi hanno insegnato una cosa, è che “la vita è dura, ingrata e spaventosamente fragile, ma nasconde anche tanta bellezza”. C’era una canzone che diceva: la guerra è bella, anche se fa male. Ed è vero: anche al fronte si può sorridere, riempire la propria vita di senso, mettersi al servizio degli altri, lottare, innamorarsi. E se ci ricorderemo di questo, le bestioline, vecchie e nuove, faranno meno paura.